Secondo
una
visione serenamente deterministica del corso della storia, quanto
è accaduto
all’Italia in questi giorni non può che fornire
conferma ad assodate certezze:
volente o nolente, per quanto recalcitrante e largamente inconsapevole,
la
società della pizza e del mandolino viene piegata dalla
forza del processo di
unificazione economica europea, viene commissariata dall’alto
e costretta a
darsi le regole che da sola non saprebbe imporsi. Tutto, o quasi, era
chiaro,
tutto, più o meno, era previsto. A questo punto, non si
tratta altro che di
additare al ceto politico e alla coscienza pubblica i veri, ulteriori
obiettivi
da perseguire - per esempio, ovvio, gli eurobond,
non meno dello stato
federale europeo - e una siffatta limpidezza di prospettiva, peraltro
già
insita nella natura delle cose, ma trasformata in tal modo in
acquisizione
della ragione, non potrà alla lunga non imporsi.
Difficile
negare, in effetti, che gli avvenimenti contemporanei, al di
là di tanti colpi
di scena alternati a viscerali crisi di panico, dimostrano la forza
inerziale
di fenomeni profondi della realtà socio-economica, che la
stessa politica,
anche quella che apparentemente detta legge, è costretta ad
assecondare: basti
pensare alla cancelliera tedesca, sospinta a smentire ogni giorno che
passa
quanto asserito in quello precedente, ovvero ad accedere a concessioni
e
decisioni dichiarate come inaccettabili fino a un momento prima. In
altre
parole, stante la fortissima interdipendenza
economico-monetario-finanziaria
del Vecchio Mondo, alla crisi non è, ragionevolmente,
possibile rispondere se
non con un’intensificazione dell’integrazione e non
certo con la lacerazione
fra le varie componenti, per quante incompatibilità
reciproche possano
sussistere, ove non tendano addirittura ad aggravarsi.
Tant’è che quelle stesse
componenti si vedono giocoforza obbligate a riformare se stesse,
comprendendo
finalmente le ragioni e le logiche del processo in cui si trovavano
coinvolte
spesso senza nemmeno averne una reale coscienza. Un processo in cui
taluni,
vedi la Germania, pur diffidando dei propri partner,
pur recalcitrando
ostinatamente, non possono non prendere la barra del timone e in cui
altri,
vedi il nostro paese, non possono non essere ricondotti a comportamenti
virtuosi provvidenzialmente imposti dall’esterno.
Giocoforza,
appunto. Onde per cui, coloro che possiedono una chiara e sicura
percezione
della logica interna del corso degli eventi non possono certo curarsi de
minimis, non si impelagano, giustamente, a mostrare simpatia
per un leader
politico od un altro, non fanno caso alla cronaca e nemmeno a singoli,
controversi aspetti della realtà interna di un paese, vedi
l’Italia, al quale
magari appartengono; il loro compito è di additare
all’intera Europa, ai suoi
cittadini e alle sue élite politiche
l’obiettivo finale, con
determinazione, con tenacia, con giustificato disdegno del contingente
e del
particolare, con la coscienza di assolvere ad un ruolo, ad una missione
di cui
essi sono gli unici possibili araldi ed esecutori. Gli altri, per parte
loro, è
bene che seguano e sperabilmente eseguano, magari associandosi in
compagini
all’insegna dell’unità nazionale, per
meglio rispondere alle esigenze di una
dinamica il cui esito sarà peraltro il superamento della
sovranità statuale,
sia pure come paradossale risultato della convinzione di servire
egregiamente
alla medesima.
Ciò
detto,
dato a Cesare quel che è di Cesare, e forse a Mario quel che
è di Mario,
sussiste almeno in me tutta un’altra serie di considerazioni
che non mi risulta
tanto facile da reprimere o dismettere. Vale a dire: in tutti questi
anni di
degenerazione della società italiana all’insegna
del bunga-bunga, ‘ndranga-‘ndranga,
tira-tira (di coca) e via evadendo, non abbiamo per caso mancato al
nostro
compito di militanti federalisti (spinelliani, degasperiani, ciampiani,
tps-sini)? Ovverossia, non avremmo dovuto impiegare tutte le nostre
forze per
avvertire, denunciare, educare, informare, precisare, approfondire,
obiettare,
avversare, contrastare, al fine di mettere in condizione il nostro
paese di
partecipare consapevolmente, attivamente, criticamente, positivamente
alla
nascita, peraltro ancora tutta da contemplare, di una nuova
entità
politico-sociale di importanza mondiale, quale l’Europa
federale? E ancora:
siamo sicuri che, al di là di ogni soluzione
economico-tecnocratica
indispensabile a mettere su solide basi tale percorso, non siano
aspetti più
culturali, comportamentali, di fiducia reciproca a risultare
altrettanto
indispensabili per il raggiungimento dell’obiettivo? E che
questi, ove si
presentino come ostacoli, possano finire per inceppare i pur
lodevolissimi
strumenti economico-istituzionali, grazie ai quali, adottati che siano
per
amore o per necessità storica, la federazione dovrebbe
comunque venire alla
luce?
Come
minimo,
c’è da immaginare che una realtà
statale novella, insorta per commissariamento
degli uni sugli altri, corra il rischio di risultare fin dalle origini,
per
quanto necessaria, anche alquanto distorta, probabilmente deforme, di
fatto
direttoriale, più coartata che voluta, vistosamente
claudicante e perennemente
deludente, se non passibile di lasciare potenzialmente aperti
devastanti
conflitti interni (tanto per dire, la federazione modello, gli Usa, ha
conosciuto a suo tempo una guerra civile fra Nord e Sud, prima di
consolidarsi
definitivamente, salvo le gravissime tensioni dell’oggi). Di
sicuro infonde
veramente un senso di colpa e di rimpianto vedere il nostro paese, per
tanti
aspetti indispensabile per la creazione di una vera federazione
europea,
arrivare in condizioni così disastrose
all’appuntamento con un crocevia storico
talmente imponente.
D’accordo,
forse, magari è possibile che, di fronte a una simile sfida,
la penisola intera
trovi finalmente uno scatto di orgoglio, scopra una volta per tutte di
essere
impreparata, disinformata, inadeguata, regressiva, oltre che
buffonesca,
imbrogliona e pasticciona agli occhi del mondo, e proceda ad una
radicale
revisione della propria fisionomia interiore e fattuale, ritrovando la
passione
per la cultura e per la scienza; rilanciando la scuola e la conoscenza
(lingue
comprese); riscoprendo le virtù necessarie a sconfiggere
criminalità
organizzata e diffusa; rivalutando onestà e senso della cosa
pubblica;
migliorando la propria efficienza in ogni dentello della macchina
amministrativo-burocratica; dotandosi di politici, diplomatici,
funzionari, operatori
di grande preparazione; distinguendo fra pubblico e privato;
abbandonando
leghismi e campanilismi per mettere le risorse dei più
efficienti a disposizione
di tutti ai fini di una comune partecipazione all’instauranda
società europea
federale; trasferendo infine il dibattito e la riflessione politica dal
battibecco autoreferenziale all’approfondita valutazione del
contesto
giuridico-istituzionale dell’Unione (a tutt’oggi
del tutto inadeguato, oltre
che troppo squilibrato a favore di vere o presunte sovranità
nazionali). E via
dicendo, senza dimenticare il dovere di restituire motivazioni,
idealità,
generosità, spirito di innovazione e di scoperta a
generazioni di giovani che
oggi aprono i maggiori quotidiani del paese per ritrovarvi, accanto ad
elementari quanto marchiani errori sull’abc
dell’Unione, paginoni e paginoni di
avvincenti opzioni su quali slip o quali sandaletti
acquistare
immantinente per sentirsi finalmente realizzati.
D’accordo,
sì,
forse, magari alla flessibilità della psiche italica non
è del tutto escluso il
saper intorcinare l’anguilla sino al punto da adattarla alla
forma e alle
sinuosità della gabbia, né si può
negare, come avvenuto al tempo della tassa
per l’Europa, subita per entrare nell’euro, che il
cittadino medio assecondi un
latente senso patriottico, associato ad un rassegnato disincanto nei
confronti
della politica, per piegarsi a sacrifici che altrove provocherebbero
reazioni ben
più accese. Però, appunto, poco da fare, di
fronte alla miseria morale e
intellettuale, prima ancora che economica, alla sventatezza in cui
è
sprofondata un intera nazione, finita commissariata per la sua
insipienza, una
più che qualche amarezza per quello che in tutti questi anni
poteva esser
fatto, dai federalisti, e non è stato compiuto, da qualche
parte resta. Resta,
per esempio, in tema di mancate campagne di informazione
sull’utilizzo della
moneta unica, che avrebbe dovuto essere gestita con teutonica
attenzione ai
centesimi, non con un disinvolto volteggio, praticamente uno zompo,
dalle mille
lire all’euro, come se nulla fosse. Sicché, ad
oggi, una pensione che era di
due milioni, e pertanto considerata piuttosto ricca, trasformata in
circa mille
euro, è da giudicarsi alle soglie, se non sotto, della
miseria, perché, poco da
fare, quella pensione vale ormai poco più di uno e non due
milioni di allora
.
O
ancora,
sempre a titolo di esempio, quando il compianto Tommaso Padoa Schioppa
sfidava
coraggiosamente il senso comune decantando la bellezza delle tasse,
forse
sarebbe stato importante il concorso di una forza organizzata
disponibile non
solo a sostenerlo, ma a denunciare palesi, diffusi, rigonfi fenomeni di
evasione che, volendo, non sarebbero stati poi molto difficili da
contenere,
magari con la corresponsabilizzazione dei singoli cittadini (ed anche
da
riassorbire, con ragionevoli miglioramenti della legislazione, talvolta
tardivamente messi a punto). E perché poi non aver incalzato
i media,
sollecitandoli a fare confronti con i livelli di qualità
della vita e di
efficienza, con le mentalità, i comportamenti, i valori, le
statistiche, le
facce dei partner con cui condividevamo il mercato
unico e la moneta,
cavallo di Troia della federazione a tutti gli effetti? E non sarebbe
stato il
caso, passando ai costi della politica, di esigere tempestivamente, per
dire,
l’aggancio delle retribuzioni dei commessi o dei barbieri
della Camera a quelle
dei docenti universitari (non l’inverso, per
carità), così almeno da non far
sfigurare un Rubbia davanti a un sussiegoso portiere di Montecitorio?
Insomma,
al di
là delle mille esemplificazioni, e a questo punto lasciando
proprio perdere il
bubbone berlusconiano, d’un livido paonazzo ineffabile,
insuperabile, inimmaginabile,
sarebbe stato giusto che i federalisti si predisponessero da subito a
propugnare le ragioni, e le necessarie durezze, dell’Italia
europea.
Presumibilmente sarebbero rimasti a lungo nell’immaginario
popolare, almeno di
un certo popolo, come strampalati predicatori nel deserto, come noiosi
portatori di malasorte, da esorcizzare con plateali toccamenti, come
saccenti
professorini ammantati di quella “curtura” di cui
son piene le fosse. Ché poi,
a ben vedere, anche i professorini, nel loro piccolo, quando
s’inc… E però, al
giorno d’oggi, ove quei professorini (e i federalisti non
sono comunque tutti
tali) si fossero a suo tempo inalberati, dedicati, profusi, stizziti,
sussisterebbero almeno le premesse, i personaggi a cui rivolgersi, un
embrione
di classe dirigente, le motivazioni e le idealità di cui
avvalersi per iniziare
finalmente a risalire la china, per riapparire sul ciglio del dirupo e
sventolare ai partner europei le proprie buone
ragioni, la propria
voglia di costruire insieme, la propria sicura affidabilità:
ossia la base
indispensabile sulla quale è possibile convincere un
interlocutore (i tedeschi
poi…) a condividere la sovranità, a mettersi
almeno in parte nelle mani
dell’altro, a rischiare addirittura di andare in minoranza,
accettando lealmente
il fatto ogniqualvolta il pulviscolo dei consorti si pronunci
diversamente
rispetto alle proprie posizioni.
Perché,
vivaddio, è facile, specie da parte italiana, mettersi
là con atteggiamento
saputo e impancarsi a far chiarezza nell’ottuso cervello
bavarese: ma è ovvio, caro
Hans, la soluzione dei problemi è il governo federale
dell’economia, è la
democrazia federale europea, ivi comprese la politica estera e quella
della
difesa. Elementare Hans, ma come fate a non capirlo?
D’accordo, non capiscono,
ma il problema comunque non si sposta: attuare la federazione
democratica
europea, oltretutto secondo il principio “one man one
vote”, considerato
tassativo dalla corte federale di Karlsruhe, vuol dire mettersi
ampiamente a
discrezione degli altri. Vuol dire accettare, mettiamo, che una
combinazione
maggioritaria di voti
italo-ispano-franco-greco-ungaro-rumeno-sloveno-malto-polono-portoghesi
possa
deliberare, mettendo in minoranza gli altri, in tema di regole del
traffico,
benché in buona parte dei rispettivi paesi le regole vengano
in genere
disattese e sbeffeggiate. Talché, non solo ci si dovrebbe
piegare ad una
legislazione non voluta, da parte dei perdenti – e si tenga
conto che certe
eventualità possono accadere su materie o in occasioni ben
più pressanti, tali
da mettere in crisi la coesione interna dei gruppi parlamentari
– ma
succederebbe altresì che anche nei paesi dove la legge viene
rispettata
rigorosamente si insinuerebbe nel pubblico la sfiducia sulla
credibilità delle
norme. Con intuibili conseguenze sul prestigio del principio
democratico
stesso, a non volersi spingere oltre.
Ecco,
Hans e
Gretel magari non comprendono, però non possono essere
sottovalutati i rischi e
le contraddizioni cui si può andare incontro in un processo
inquinato dal
pressapochismo e della sfiducia reciproca, ed è pertanto da
presumere che i due
fratellini della favola, pur attirati dalla succosità del
grande mercato e
della moneta unica, annusino nell’aria miasmi da strega
cattiva, pronta a
metterli tutti e due sotto chiave, magari proprio perché
sono grassi, e grassi
in effetti lo sono, con il segreto desiderio di cucinarli nel
calderone. Sarà
allora forse per questo che la Merkel, a Bruxelles, invece di farsi
palpare il
dito grassoccio, mette sempre avanti ossuti bastoncini? O non
succederà invece,
vai a vedere, che alla fine saranno i maschietti e le femminucce
germaniche a
mettere la strega Ue nel pentolone, portandosi via tutti i suoi beni?
In
definitiva,
a psicologie tendenzialmente ansiose come quella del sottoscritto pare
una
scommessa davvero azzardata avviarsi così, ottimisticamente,
a cuor leggero,
nelle condizioni date, verso l’attuale accelerazione
“giocoforza” del processo
di integrazione, il quale processo, a ben vedere, e ci smentisca
l’Onnipotente,
significa poco meno che sfidare la maledizione biblica della Torre di
Babele
(nel nostro piccolo ne sappiamo già qualcosa noi italiani,
del nord e del sud).
A siffatte ansanti psicologie, niente da fare, sarà pur
sintomo di debolezza di
reni, però dà semplicemente lo spasmo veder
comparire al tavolo delle
trattative della grande riunificazione continentale, in rappresentanza
della
terra di Dante, di Galileo e Cavour, una galleria delle più
sconcertanti
escrescenze metastasizzatesi chissà come nella medesima
plaga di santi e
navigatori, di poeti e inventori, notoriamente decantati dalla
buonanima. Ma
davvero affideremo noi a Papi (oh Papi, ci mancavano pure 10 milioni di
euro a
un condannato in esterno-mafia da Tribunale e Corte d’appello, come
Marcellino
dell’Utri, per farci
fare buona figura fra Parigi, Berlino e Bruxelles! ma Papi!), ma
davvero
affideremo noi a certi ineffabili connazionali, e la galleria si
presenta
interminabile, un così epocale processo, che sfida i limiti
stessi della natura
umana, e non soltanto, vale la pena di ripeterlo, la tenuta delle
scarselle e
dei borsellini?
Fuori
di ogni
sarcasmo, non sembra realmente possibile ipotizzare che persone fino a
ieri
così indifferenti, incompetenti, impreparate,
incomparabilmente distanti da
ogni reale riflessione e conoscenza a proposito di qualsivoglia aspetto
dell’unificazione europea, non meno che della reale
fisionomia dell’Unione,
possano ora gestire con credibilità, efficienza,
consapevolezza di quel che
fanno una fase politica la cui impegnatività fa veramente
tremare le vene ai
polsi. Allo stesso modo, risulta assolutamente improbabile che una
società così
tenuta distante, disinformata, non acculturata in tema di Europa (nella
mia
facoltà umanistica, alla Sapienza, ateneo non minimale, non
esiste una
tradizione di studi sull’Unione europea) riesca agilmente a
farsi parte attiva
del processo, sia per sospingerlo lungo ardite direttrici e sia anche
per
tutelare i propri legittimi interessi. Eppure, a tale ultimo proposito,
il
quadro resta di fatto ancora confuso, incerto, contraddittorio, pervaso
da
inquietanti pulsioni latenti (tutti da scoprire i paesi di recente
allargamento,
per non dire di quelli balcanici...) quanto non immune da riflessi
veteronazionalistici
diffusi persino in coloro (la stoccatina questa volta è per
Sarkò l’Africano)
che commissariano, guidano, portano la maggiore
responsabilità dell’ondivago
galoppo del toro mitologico con Europa sulla groppa, nervosamente
afferrata
alle due corna, la francese e la teutonica.
Disperiamo
allora, concludendo, di poter assistere ad un esito positivo del
processo di
ulteriore integrazione? Disperiamo insomma di una nascita
sanitariamente
accettabile della federazione europea, estratta dolorosamente alla vita
dai
cucchiaioni a forcipe della finanza speculativa e delle agenzie di rating?
Disperazione magari no, benché la scena richieda
obiettivamente degli stomaci
forti. La speranza, si dice, e non da oggi, è ultima dea.
Per cui non diamo
nemmeno per necessariamente abortita, malgrado le gravi
infermità della
gestante, la contrazione espulsiva, seguita dai primi vagiti,
dell’Italia
europea. Tuttavia, quel senso di rimpianto e di amarezza per le
occasioni
mancate non sembra attenuarsi tanto facilmente, anzi prende alla gola,
e
raggiunge i precordi, con sempre maggiore intensità,
stimolando un desiderio di
riscatto.
Vale
a dire
che i federalisti del Belpaese, pur aspirando a promuovere lodevoli
mobilitazioni, quali l’Iniziativa dei cittadini europei
(ICE), orientate a dare
la scossa ad un intero continente mediante la raccolta di un milione di
firme
in almeno sette paesi diversi, non dovrebbero tuttavia sottrarsi al
compito di
venire al soccorso dell’Italia europea. Per la
verità, in parte lo hanno già
fatto all’ultimo congresso del Mfe, quello di Gorizia, che ha
sottoscritto una
notevole “mozione per l’Italia europea”,
consultabile sul sito del Movimento,
mettendo al contempo al lavoro una commissione sullo stesso tema. La
quale
commissione ha già prodotto un primo documento di carattere
economico, a firma
di Antonio Longo e Alberto Majocchi, che descrive impietosamente i mali
del
paese, suggerisce di insediare un governo di emergenza e di garanzia
istituzionale, espone con lucidità le riforme interne che
dovranno essere
adottate, nonché integrate con misure di carattere europeo.
Basterà
però
tutto questo ad esercitare un impulso adeguato, pur
nell’apprezzamento,
tutt’altro che estemporaneo ed improvvisato, del contributo
di Alberto
Majocchi, vero punto di riferimento per i federalisti e non solo, oltre
che nel
riconoscimento dell’apporto di tante altre illuminate
personalità del Mfe?
Presumibilmente no. Con lucido realismo un grande intellettuale europeo
come
Jürgen Habermas ha recentemente auspicato che un partito
europeo, sostenuto
vivamente dal basso, dalla partecipazione del corpo sociale, dai
movimenti si
rimbocchi finalmente le maniche e si dia come obiettivo di scalpellar
fuori
dalla dura materia ancora informe, come i Prigioni michelangioleschi,
la
sospirata federazione democratica del Vecchio Mondo. Uguale a dire che
l’Europa, e l’Italia, avrebbero bisogno di vedere
emergere una vera forza
politica, lungimirante, determinata, capace di suscitare un moto delle
coscienze, una volontà creativa, una consapevolezza di osare
l’inosato. Per
merito di quella formazione politica, i pur sostanziosi moti convettivi
dell’economia reale, dei decreti di risanamento draconiani,
dei sistemi
produttivi desiderosi di crescere e fronteggiare la concorrenza
internazionale
- il tutto immerso in assetti funzionalistici a suo tempo sapientemente
predisposti, ma ormai largamente inadeguati – dovrebbero
trasformarsi in
decisione dei popoli di superare le sovranità, di plasmare
istituzioni nuove,
di sottomettersi ad un comune ed irreversibile disegno fondativo.
Il
dettaglio
mancante, tuttavia, è che quel partito al momento non
esiste, pur nella generale
convinzione che qualcosa dovrà pur farsi, e pur non volendo
da parte nostra
ignorare un’iniziativa davvero incoraggiante come la
costituzione a Bruxelles
dello Spinelli Group, animato da autorevoli personalità di
paesi diversi. Purtroppo
nemmeno in Italia, la terza gamba tutto sommato indispensabile del
nucleo duro
dell’Unione, si profila una formazione politica pienamente
avvertita delle
premesse e delle conseguenze di quanto avvenuto con il recente
commissariamento
della direzione economica nazionale da parte dei maggiorenti della Ue.
Tanto
meno emerge nei vari schieramenti una forma mentis
intenzionata a
rovesciare i conformismi di una politica tutta rivolta a scrutare ogni
pieguzza
dell’ombelico nostrano, volgendola finalmente a prendere in
esame, valutare,
affrontare le grandi tematiche continentali, che sono poi quelle da cui
dipende
la floridezza o meno dell’ombelico in questione. In questo
quadro, anche un
appello di qualche mese fa rivolto da alcuni federalisti al segretario
del Pd,
Bersani, affinché il suo partito facesse propria
l’eredità storica, culturale e
progettuale del federalismo europeo, spinelliano e non solo, non
è stato
nemmeno degnato di una risposta.
Ma
non varrà
allora la pena, o, meglio, non sarà allora doveroso per i
federalisti, stante
che l’Italia europea, sia pure nel modo più
penoso, è ormai stimolata e messa
in moto, tentare di deglutire l’amaro in bocca delle
occasioni mancate per
recuperare con ancor maggiore consapevolezza il tempo perduto? Ossia
supplendo
almeno in parte all’assenza della forza politica organizzata
di cui sopra, una
forza adeguatamente e competentemente schierata per la federazione
europea e
per un’Italia presentabile al suo interno? Presumibilmente,
anzi, assolutamente
sì, ma supplire come? Quello di cui si sente il bisogno
è un saldo momento
associativo, largamente visibile, di tradizione
risorgimentale-repubblicana, se
possibile adorno di simboli evidenti (magari non come il sole verdino o
le
ampolle della Lega, però un qualche dodici stelle con
venature tricolori…), non
intimidito dall’ipotesi di scelte coraggiose, possibilmente
diffuso nelle
università e fra i portatori di neuroni pensanti, ispirato
ad una percezione
della serietà degli eventi non dimentica della temperie
drammatica con cui
settant’anni or sono, a Ventotene (ancora vigente il Patto
Ribbentrop-Molotov,
ancora versante la Francia nell’onta di Vichy, ancora
imperante l’Asse
Roma-Berlino) alcuni confinati antifascisti si resero conto della
spasmodica
necessità, per i democratici di tutto il continente, di
unire le forze,
indipendentemente dalle appartenenze nazionali, per redimere e far
rifiorire la
comune civiltà.
Ai
nostri
giorni urge innanzitutto un lavorio di educazione e di
sensibilizzazione, di
approfondimento e di preparazione, di impegni mantenuti e di proposte
da
mettere in pratica, di severa autocritica e di drastica, consapevole,
motivata
emancipazione dalle maggiori piaghe nazionali. Incalza la
necessità di
instaurare un clima di fiducia e di rispetto con gli altri partner
europei, pena l’insuccesso dei progressi
dell’Unione (la quale riceverà
viceversa nuovo impulso dal percepire un paese come l’Italia
rinnovarsi in nome
del comune progetto). Necessita un rinnovato afflato patriottico,
inteso nel
senso migliore del termine, grazie al quale e soltanto grazie al quale,
di
fronte alla sfida avvincente della comune avventura europea, potranno
essere
ritrovate ragioni, spinte ed energie per esercitare un deciso impulso
innovatore nella società e nelle istituzioni. Si esige
privilegiata attenzione per
l’etica del lavoro, della solidarietà e della
creatività. Si impone il riscatto
di tutti coloro che assolvono silenziosamente alla propria quotidiana
fatica e
che risultano ad oggi troppo sacrificati sull’altare degli
esibizionismi
mediatici, vero oppio dei popoli.
Solo
su queste
basi, sperabilmente coinvolgendo le forze della società
civile, le sue componenti
economiche ed anche le diverse entità religiose,
sarà consentito attuare,
rendere realistico, sostenere con adeguate risorse un programma come
quello
prefigurato dalla commissione per l’Italia europea del Mfe. E
in generale sarà
possibile rispondere adeguatamente alle esigenze del decennio appena
apertosi,
specie se, appunto, alle proposte di natura economica verranno
affiancate
istanze e motivazioni che ci sia consentito definire etico-politiche.
Sogni
di una
notte di mezza estate? Fantasticherie di un Ferragosto tormentoso e
commissariato? Può darsi, ma da qualche parte, anche ad
opera di pochi, sarà il
caso di cominciare a rimboccarsi le maniche, come ci ha suggerito il
filosofo.
Alcune componenti federaliste che approvano l’iniziativa
dell’Italia europea,
molti simpatizzanti per il messaggio di Spinelli, cui va il conforto
del Capo
dello Stato, enti e le associazioni che raccolgono
l’eredità di “Ulisse”,
qualora siano disponibili ad iniziative comuni, possono dare la prima
scossa.
18 agosto 2011
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