Evviva! L’unità d’Italia
è salva! Nel nome delle “dazioni” e del “tengo famiglia”, anche la Lega di
Umberto Bossi si è riunita finalmente alla grande comunità nazionale,
confermando quell’ineffabile senso di appartenenza, dalle Alpi alla Sicilia,
che rende la penisola veramente “una”, “una d’arme [oddio…], di lingua [più o
meno], d’altare [in effetti l’Umberto s’è subito rifugiato in chiesa], di
memorie [giudiziarie? una cifra], di sangue [la mamma del Trota, mezza sicula è]
e di cor [o forse gol?]”. Proprio così, o pressappoco, la voleva il Risorgimento e così la garantiva il
sommo poeta di ascendenza eminentemente lombarda. Altro che ampolle celtiche o
fratellanze padane! Altro che sprezzanti rodomontate contro l’inquinamento
psicofisico portato dai terroni! Ché poi, quelle volte che i veneti tuonavano
in vernacolo contro le “scoasse de Napoi”, nemmeno i fratelli lumbard lo
capivano che si trattava della “monnezza” a Mergellina… Vabbé, ormai la
stagione del pirla, o del colpo di mona, è superata: “non fia loco ove sorgan
barriere tra l’Italia e l’Italia mai più”. E difatti, giustamente, il tesoriere
legaiolo, quello che protendeva la Padania fino alla Tanzania, non è che ci
avesse la puzza sotto al naso verso il calabresello della ‘ndrangheta. Ma
quando mai? Preciso come il Cav di Arcore: “ghe pensi mi”. E allora dagli Belsito,
dagli sotto con i “danè”, senza barriere, “dal Cenisio alla balza di Sicilia”.
Unità ed eguaglianza
finalmente! All’insegna del portafoglio duro, grosso e palpabile per tutti. Non
più, insomma, da una parte Roma ladrona, mentre dall’altra: “con quel volto
sfidato e dimesso, con quel guardo atterrato e incerto con che stassi un
mendico sofferto per mercede nel suolo stranier, star doveva in sua terra il
Lombardo…” Non più, non più. Fino ad oggi, indubbiamente, “l’altrui voglia era
legge per lui [sempre il misero lumbard], il suo fato un segreto d’altrui; la
sua parte servire e tacer”. Ma adesso no, basta. Oramai, cara Italia, tutti
eroi, e tutti accoppiati: “ecco alfin dal tuo seno sboccati, stretti intorno à
tuoi santi colori, forti, armati de’ propri dolori, i tuoi figli son sorti a magnar”.
Ma non era “pugnar”? Inezie, sfumature, sta a guarda’ il capello, come dicono
quelli della ladrona. La passione prepotente, aggressiva, famelica?, vivaddio,
è patrimonio spirituale nazionale. E non passerà certo da un momento all’altro.
Grandezza del poeta.
Potenza profetica del Manzoni che aveva capito tutto. Non soltanto sul suo
tempo, non soltanto su quanto successo ai nostri giorni, ma anche su quello che
- una volta andata in vacca la Padania e ricongiunta in un flusso di liquami la
capitale morale celtico-formigoniga con Nocera, Casal di Principe e la Vucciria
- il destino riserverà agli abitanti dell’intera penisola. Perché ormai “il suo
fato [dell’Italia] sui brandi vi sta”. Ovverossia: “O risorta per voi la
vedremo al convito dei popoli assisa, o più serva, più vil, più derisa, sotto
l’orrida verga starà”.
E proprio qui difatti
sta il punto, pur nella malcelata soddisfazione per il disdoro di un Calderoli,
o la rinuncia alla Porsche dei fratelli Bossi. Ma siamo sicuri che da questa
dilagante crisi morale (ci perdoni il senatore Lusi della Margherita se in
proposito pensiamo anche a lui) il paese saprà ritrovare il senso della dignità
e il legittimo orgoglio per uscire riscattato una volta per tutte, praticamente
vaccinato contro l’infestazione parassitario-rapinatoria di quella che è stata
la seconda repubblica? Sia consentito dubitarne seriamente, o almeno rendersi
conto che sarà necessaria una stagione di impegno sfibrante e di dedizione
appassionata se si vuole che l’Italia della costituzione repubblicana e della
decorosa partecipazione al convito dei popoli (l’Unione europea, in primis) non esca universalmente
demotivata, sfiduciata, resa intimamente inerte dalle inverosimili, devastanti vicende
di degenerazione della vita democratica indotte dal comportamento dei partiti e
di tanti famelici mestieranti accampatisi sul proscenio
governativo-parlamentare negli ultimi decenni.
Perché l’amara
verità, sfortunatamente, è questa. E cioè che, allorché venne a concludersi la
stagione della cosiddetta prima repubblica sotto l’incalzare delle iniziative
giudiziarie miranti a bonificare la politica e la società dall’inquinamento di
Tangentopoli, il risultato fu esattamente l’opposto di quello sperato. Vale a
dire che, una volta cadute nel discredito le istituzioni, invece che assistere ad
un risveglio etico-politico in grado di portare al vertice gli ottimi della
società, ci si trovò di fronte, con l'eccezione di una pattuglia di prodi presto abbattuti, all’arrivismo degli spregiudicati, dei
personaggi di seconda fila assatanati di potere e denaro, dei rotti a tutto,
fuorché alla cultura e al bene comune. Da cui le devastanti conseguenze per la
democrazia italiana, soltanto negli ultimi tempi fronteggiate da un governo di
emergenza portato al vertice non già dalla reazione autoctona delle “itale
genti”, quanto dalla “verga”, per la verità nemmeno tanto “orrida”, della
Commissione di Bruxelles, sospinta dai mercati internazionali.
Ma la fondata
preoccupazione, appunto, è che la “verga”, quella davvero repellente –
lasciando stare le protuberanze a soffietto di cavalieri ormai in disarmo –
sia ancora tutta da vedere e da sentire. Sussiste insomma il legittimo sospetto
che dall’ulteriore sprofondamento della repubblica democratica italiana (dopo
la prima anche la seconda) possa sortire come effetto il quasi totale
disincanto verso la politica da parte dei cittadini, la disaffezione nei
confronti delle istituzioni di garanzia collettiva, il diffondersi di un
individualismo sempre più rassegnato quanto nevrotico. A quel punto non
potrebbe esserci spazio se non per una sorta di chiusura oligarchica della
società e della vita pubblica, come già accaduto in epoche lontane, magari con
il concorso di funambolismi attivistici da parte di specialisti del numero,
ottimi per distogliere l’attenzione del pubblico e dei media dalla crescita dei
poteri opachi. Sempre che non vi si aggiunga una frammentazione
particolaristica del corpo della nazione, tale da rinchiuderlo in tante
comunità introflesse quanto sono le cento città di cui esso si compone, una
frammentazione che “ancora una gente risorta potrà scindere in volghi
spregiati, e a ritroso degli anni e dei fati, risospingerla ai prischi dolor”. Che
non è poi prospettiva del tutto irrealistica. Caso mai il contrario.
Ben venga dunque, in
definitiva, e con il conforto di don Lisander, la soddisfazione per lo
sgangherato tracollo di chi minacciava separatismi, divisioni etniche e
secessioni, prospettando invariabilmente regressioni nel passato e ricadute,
quelle sì sicure, nei “prischi dolor”. Ma attenzione, appunto, allo spettro
della ritrovata unità nazionale del “così fan tutti”, del “non c’è niente da
fare”, dell’Italietta complice e intimamente compiacente, perché alla fine i
risultati potrebbero rivelarsi non dissimilmente dolorosi. Talché sotto l’imperio
della “verga” si vedrebbero sconciamente accompagnarsi il pervasivo malaffare
nazionale con la mefitica influenza di poteri esterni, inevitabilmente manipolanti
su un corpo gelatinoso, compromesso, equivoco, privo di nerbo. Quod Deus – o
almeno il popolo italiano - avertat!
La speranza, insomma,
e nei limiti del possibile anche l’impegno, è che proprio lì, tra la Bormida,
il Ticino, l’Adige e l’Isonzo, ma ovviamente anche altrove, il forzato
affievolirsi delle grevi sonorità leghiste sia occasione e stimolo per un serio
ripensamento dell’intera questione nazionale, per una presa d’atto che il Risorgimento
attende ancora di essere pienamente compiuto, sia pure senza la presunzione che
la penisola sia proprio “una”, di armi, di sangue, d’altare, ma magari almeno
di civiltà, di istituzioni e anche “di cor”. Forse le migliori energie padane
potrebbero veramente snebbiarsi dall’incantamento cialtronesco– ma come hanno
fatto? – che le ha stregate, vuoi alla vista della canottiera esibita ad
Arcore, vuoi del dito medio inalberato a mo’ di ostensorio per le folle. Forse quelle
energie potrebbero davvero far tesoro della penosa disavventura per dimostrare
le indubbie potenzialità del Nord nell’assicurare, se necessario imporre, efficienza,
affidabilità, solidarietà, dedizione alla ricerca e all’innovazione, spirito
imprenditoriale, avversione per il crimine, senso civico, rispetto delle
istituzioni, rinascita della democrazia dei partiti, nel rispetto delle tutele
costituzionali. Da estendere a tutto il paese…
“Oh, giornate del
nostro riscatto!”, sempre recitando insieme al poeta meneghino (lumbard, come
Borghezio) con la fiducia, ma non troppa, che sotto il Resegone, o
eventualmente il Grappa, qualcuno abbia il coraggio di riscoprirlo come proprio riferimento ideale.
Anche in tempi brevi, dannazione. (Perché, per quanto bravo, per quanto
milanese anche lui, il Mario bocconiano non è che possa risolvere tutto da
solo, dalla campana di vetro). E se questo avverrà, con il contributo di tutti
noi che lo vogliamo e operiamo in siffatta prospettiva, si può star sicuri che
al centro dell’attenzione ci sarà “il convito di popoli”, l’Unione europea in primis, quale luogo di rinnovata
affermazione di identità, di concorso al progresso della civiltà (“Ogni gente
sia libera e pèra della spada l’iniqua ragion”) e al tempo stesso metro di
misura indispensabile per valutare se il riscatto sia davvero avvenuto o se
l’Italia, tutta intera, sia destinata ad annegare nella “monnezza” o nelle
“scoasse” che dir si vogliano.
Questo è il compito,
nazionale e sovranazionale insieme, che deve far seguito al collasso del
localismo etnico-separatista, suggestivo come la smorfia dell’Umberto. Con la
collaborazione convinta di chi sta al di qua e al di là degli Appennini, del Po,
o dello stretto di Messina. Perché a “quel convito” c’è oltretutto spazio,
legittimo, anche per la tutela delle tradizioni e per l’esercizio della
sussidiarietà. Ma molto, molto meno, invece, per la cialtroneria, l’arroganza
ignorante, il populismo dei furbi, che proprio in questi giorni ha dimostrato
la fine che fa.
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