Al
Segretario del Partito Democratico
On.
Pierluigi Bersani
Roma
Roma, 24
settembre 2010
Caro
Segretario,
i
firmatari di questo appello, militanti del Movimento federalista
europeo,
fondato da Altiero Spinelli, considerano il Partito democratico,
purché sappia
confermarsi all'altezza del compito, un punto di riferimento essenziale
per il superamento
dell'involuzione del sistema politico italiano e per l'elaborazione di
un progetto
di riscatto della nostra democrazia, fondata sulla Costituzione. Un
progetto in
grado di assicurare, grazie alla profonda motivazione dei suoi
sostenitori, non
solo una valida azione di governo sul piano interno, ma anche un
contributo decisivo
al completamento del processo di integrazione europea, in una fase
difficile
della vita dell'Unione.
La
nostra convinzione si basa sulla presenza nel partito di componenti
basilari dell'Italia
erede dell'antifascismo e della Resistenza e sul disegno
politico-culturale con
cui il Pd è stato fondato: ovvero sull'impegno a riprendere,
superando antiche
divisioni, i motivi ideali con cui è nata la Repubblica -
ispirati
all'eguaglianza, allo sviluppo sociale, alla giustizia, alla democrazia
nazionale
e sovranazionale - per farne la base del comune sentire di tutta la
comunità
politica italiana, realizzando al tempo stesso il pieno adeguamento del
sistema
istituzionale ai modelli occidentali più avanzati.
Rileviamo
tuttavia una persistente carenza da parte del Pd nel definire la
propria
identità, tanto in riferimento all'analisi del passato che
all'elaborazione di
quel progetto politico generale, di quella visione di lungo respiro che
appartiene alla migliore tradizione dei movimenti democratici e
popolari, e di
cui oggi si avverte l'inderogabile necessità. Riteniamo
infatti che il Pd, per
ritrovare un comune percorso di continuità nella storia
repubblicana e per
dimostrarsi all'altezza delle esigenze del presente, ben superiori alle
modeste, se non avvilenti ristrettezze del quadro nazionale, non possa
limitarsi ad indicare possibili combinazioni di governo, o auspicabili
riforme
elettorali.
A
nostro avviso, per rappresentare davvero un caposaldo della nostra
democrazia,
un nuovo punto di partenza della vita nazionale, esso non
può esimersi dal
sostanziare la propria proposta politica con una coraggiosa, epocale
innovazione, ponendo cioè al primo posto l'obiettivo
esemplarmente additato
alle forze progressiste da un padre dell'Europa come Altiero Spinelli:
la
federazione democratica europea, da realizzare grazie anche al ruolo
trainante
del nostro paese.
Solo
facendosi carico del problema centrale del nostro tempo, quello,
appunto, del
superamento della sovranità egoistica degli stati, in vista
di un superiore
traguardo di civiltà, capace di assicurare all'unico livello
possibile il
consolidamento e lo sviluppo degli ideali democratici condivisi dai
popoli
europei, il Partito democratico potrà dotarsi del patrimonio
ideale, della
visione intellettuale, della capacità progettuale e della
necessaria
determinazione per riuscire ad affrontare e risolvere anche i problemi
interni,
apparentemente insuperabili, del nostro paese.
In
tale impegno si racchiude il lascito migliore delle generazioni di
militanti e
dirigenti progressisti che ci hanno preceduto e al tempo stesso la
più felice
interpretazione dell'interesse nazionale, rigorosamente coincidente con
quello
della democrazia europea. In quell'impegno si esprime infatti la
sintesi e la
continuità delle tradizioni che appartengono alle componenti
fondatrici del
Partito democratico, una sintesi e una continuità in cui
all'antico militante
comunista Spinelli si affiancano le figure di De Gasperi, Einaudi,
Rossi, La
Malfa, Nenni e tanti altri, fino a giungere alle eminenti
personalità del
presente, quali i presidenti della Repubblica Ciampi e Napolitano.
Grazie
a quel medesimo impegno, del resto, e solo grazie ad esso,
sarà possibile
trovare le motivazioni forti e cogenti per imprimere una svolta
decisiva nella
vita nazionale, rendendo credibile ed idonea la nostra
società a sottoscrivere
il patto federale con i paesi disponibili al completamento del processo
di unificazione
europea. Un processo oggi tanto indispensabile e al tempo stesso tanto
faticoso, proprio per la difficoltà di assicurare la
reciproca fiducia fra i
popoli impegnati in un tornante decisivo della loro storia. Eppure,
anche gli
avvenimenti economici più recenti hanno dimostrato ancora
una volta, persino ai
più ostinati, che non esiste un'altra strada rispetto a
quella
dell'integrazione sovranazionale.
Ma
allora, perché vivere come soggetti passivi, litigiosamente
introversi e
penosamente incompetenti una stagione di rifondazione di un intero
continente,
che produrrà effetti duraturi su tutto il quadro mondiale?
Perché non tentare
di affrontare, grazie alla dimensione europea, le problematiche
primarie del
nostro tempo, come è compito e dovere dei movimenti
progressisti, cui spetta di
sostenere prospettive di equità e benessere per tutti i
popoli del mondo?
Perché, infine, non provvedere a tutelare i legittimi
interessi del proprio
paese in un contesto che non è certo fatto soltanto di luci,
ma anche di
pericoli e ombre?
In
definitiva, il compito del Partito democratico è di farsi
promotore dell'Italia
europea, raccogliendo le forze necessarie per un'azione di governo
profondamente trasformatrice, mirante a dotare il paese delle risorse
spirituali,
istituzionali e materiali idonee ad esercitare un impulso costruttivo
ed
equilibrato nell'ambito dell'Unione. Proprio e solo in forza di questo
impegno,
lo ripetiamo, sarà possibile introdurre ad ogni livello del
tessuto sociale i
criteri di legalità, responsabilità, efficienza e
trasparenza indispensabili a
conferire al paese, salvandolo al tempo stesso dalla frantumazione
particolaristica, la credibilità necessaria a condividere il
patto federale con
gli altri popoli europei che vorranno sottoscriverlo.
Al
contempo, la società italiana si troverà
maggiormente tutelata, grazie alle
regole, e al loro rispetto, elaborate dalla statualità
sovranazionale e
concepite secondo i principi del welfare
europeo, nei confronti dei fenomeni potenzialmente invasivi, oltre che
socialmente
pericolosi, comportati dall'apertura dei mercati e dalla
globalizzazione, ove affidata
all'esclusiva discrezionalità delle grandi imprese, dei
fondi sovrani e dei
capitali privati.
Caro
Segretario,
il
documento che alleghiamo intende ripercorrere con maggiore
approfondimento i
punti fin qui sinteticamente esposti, proponendo al tempo stesso i
capisaldi di
un programma che speriamo all'altezza delle ambizioni e delle
responsabilità
che sono proprie di un partito, come il Pd, cui sono affidate per tanti
aspetti
le sorti della democrazia italiana e della stessa unità
nazionale, ai nostri
giorni tanto celebrata quanto gravemente minacciata.
Solo
l'Italia europea, costi quel che costi, e probabilmente non
sarà poco, sarà in
grado di sventare l'insidia di poteri forti, egoistici e troppo spesso
oscuri
che attaccano le magistrature, sgretolano la legalità
democratica e sollecitano
le degenerazioni populistiche. Solo l'esempio di chi ha avuto la
lungimiranza,
la grandezza intellettuale e la forza d'animo di capire prima degli
altri il
percorso da seguire, sacrificandosi per esso, può
rafforzarci nella determinazione
di portare a termine il grande progetto di civiltà che
è parte integrante, non
dimentichiamolo, della nostra Costituzione.
Per
queste ragioni Le chiediamo di volerci offrire l'opportunità
di un incontro,
riservato o pubblico, come Lei preferisce (nel secondo caso la sede
potrebbe
essere la Sapienza di Roma, in collaborazione con il Circolo del Pd, ma
ci
rimettiamo ovviamente alle sue scelte), per conoscere il Suo parere,
come
Segretario del Pd, sul testo che Le sottoponiamo in questa sede.
"La
via da percorrere non è facile né sicura, ma deve
essere percorsa e lo
sarà", dal Manifesto di Ventotene,
estate del 1941.
Con
viva cordialità
Piero
Graglia, Francesco Gui, Luigi Vittorio Majocchi, Edmondo Paolini,
Michele
Ballerin, Nicola Forlani, Marisa Pattera, Tommaso Visone, Ines Caloisi,
Alessandro Zunino, Gaetano De Venuto, Francesco Diodato, Matteo
Trapani, Marcello
Cutropia.
“Dovrai
tu allevare i ragazzi e crescerli nel
rispetto di quei valori
nei quali noi abbiamo creduto… Abbiano coscienza dei loro
doveri
verso se stessi, verso la famiglia…, verso il paese,
si chiami Italia o si chiami Europa”
Giorgio
Ambrosoli a sua
moglie Annalori
Caro
Segretario,
come
militanti del
Movimento federalista europeo, fondato da Altiero Spinelli, e
politicamente
vicini al Partito democratico, guardiamo con preoccupazione
all’incertezza
sempre più evidente, denunciata ormai anche dalla stampa,
riguardante l’identità
culturale e il radicamento storico di un partito che intende perpetuare
e
rilanciare i valori del patto costituzionale con cui è nata
Come
è noto, il Pd è
nato nell’ottobre 2007 quale entità nuova, e
dunque mirante a introdurre un
fattore di trasformazione nel quadro politico nazionale, in parte in
risposta
all’affermarsi della cosiddetta seconda Repubblica e in parte
per completare il
processo di adeguamento al venir meno delle contrapposizioni della
guerra
fredda, a seguito del tracollo del comunismo.
Il
nuovo partito,
richiamandosi a esperienze e modelli statunitensi e perpetuando al
tempo stesso
concetti di democrazia condivisi sia dagli eredi della Democrazia
cristiana più
sensibili alle istanze sociali, sia dalla cosiddetta democrazia laica e
sia ancora
dagli ex dirigenti e militanti del Partito comunista italiano,
considerato
nella sua originalità e specificità rispetto al
regime sovietico, intendeva
unire in un solo soggetto politico le forze convintamente eredi della
Resistenza e dell’antifascismo per contrapporle
più efficacemente ad uno
schieramento moderato sostanzialmente populistico e ideologicamente
composito,
raccoltosi sotto la guida di un imprenditore fattosi uomo di Stato per
un grumo
di interessi decisamente lontani da quello collettivo.
Tale
lungimirante disegno,
maturato sulla felice esperienza di un dialogo fra laici e credenti
impegnati
politicamente in una delle realtà più
significanti dell’Italia postbellica,
introduceva sicuramente un fattore di chiarezza, di tutela dei principi
di
legalità e di coerente spinta riformatrice nel quadro
politico, proponendosi in
primo luogo di adeguare, nel rigoroso rispetto della Costituzione, gli
schemi
dell’esercizio del potere e della rappresentanza a quelli dei
paesi occidentali
di più sicura tradizione democratica, tutelando al tempo
stesso le fasce meno
favorite della popolazione, insieme ai valori egualitari radicati nella
cultura
dei partiti popolari.
Sulla
base di tale
impostazione ed affidandosi alle personalità culturalmente
più partecipi di
tale visione, non a caso ampiamente eredi delle concezioni di Altiero
Spinelli,
il Pd puntava nel concreto a garantire una seria e affidabile gestione
di
governo, seppur contrastata sia dal frammentario rivendicazionismo di
residuali
aggregazioni partitiche della sinistra, sia dalle persistenti
conflittualità
interne, dovute, oltre che a rivalità personali, alla
incompleta conciliazione
delle componenti che avevano dato vita al nuovo partito.
Per
la verità, un’inadeguatezza
di fondo risiedeva nel progetto politico stesso del Pd ove questo, nel
dichiararsi forza alternativa allo schieramento promotore della seconda
Repubblica, finiva per accreditare quest’ultimo come
legittimo antagonista
democratico, quando invece nella discesa in campo del cavaliere di
Arcore emergevano
da sempre elementi inaccettabili di distorsione dei principi, dei
valori e
della legalità dello Stato nato dalla costituzione
repubblicana, dai quali
elementi sarebbe stato indispensabile prima o poi liberarsi.
A
ben vedere, il
Partito democratico era chiamato a proporsi piuttosto come fattore di
aggregazione
di tutti gli eredi della Costituzione quarantottesca che non di
cristallizzazione della contrapposizione fra due compagini, di cui una
non
risultava pienamente compatibile con lo spirito e i precetti della
carta
fondativa della Repubblica. Mancava infatti quell’idem sentire della cosa pubblica su cui,
indipendentemente dalle
differenziazioni partitiche, si fonda una statualità
legittima e condivisa. Del
resto, sarebbero stati i fatti, anche recenti, a dimostrare sia la
necessità
per il Pd di aggregare forze diverse purché animate da
quell’idem sentire di
fondo, sia l’opportunità
che a porsi alla guida dello stesso schieramento moderato, convergendo
verso il
centro, siano elementi compatibili con le tradizioni repubblicane
postbelliche,
foss’anche separandosi nel tempo dal Partito democratico, che
al processo di
riaffermazione dei valori fondanti dell’Italia nata
dall’antifascismo ha dato
insostituibile impulso.
Purtroppo,
a tale vocazione,
ossia a farsi centro propulsivo del pieno adeguamento della democrazia
italiana
ai modelli occidentali di funzionamento - nel saldo contesto della
carta
costituzionale, vero atto di rifondazione dello stato italiano dopo la
tragedia
del fascismo - il Partito democratico, una volta estromesso
(estromessosi?) dal
governo, ha finito per rinunciare in misura via via crescente (salvo le
recenti, incoraggianti iniziative ricordate in esordio, peraltro ancora
incentrate
su alleanze, schieramenti e riforma elettorale, piuttosto che su
programmi e
temi identitari).
Alla
visione strategica
si sono infatti man mano sostituiti: vuoi una politica del giorno per
giorno,
mirante ad assecondare gli occasionali orientamenti
dell’elettorato, spesso
valutati con logiche televisive e demoscopiche; vuoi
l’aspirazione - peraltro
non priva di giustificazioni, seppure, allo stato, non troppo pagante -
a
riavvicinarsi alle dinamiche europee di contrapposizione fra
socialdemocrazia e
conservatorismo liberal-liberistico; vuoi ancora il desiderio dei
singoli leader del Pd di perpetuare
le proprie
posizioni di potere (tradizioni politico-culturali, elettorati
consolidati, reti
di sezioni e relative infrastrutture, realtà economiche
collegate). E questo anche
a costo di rilegittimare la dirigenza avversaria, rientrata ai posti di
comando,
ovvero di mettere ai margini ampie componenti
dell’elettorato, indispensabili
al raggiungimento della maggioranza del consenso, che era poi
l’obiettivo
originario su cui era stato costituito il partito stesso.
L’esempio
e il messaggio di Altiero Spinelli. Una risorsa fondamentale
Oggettivamente,
tra le
ragioni di questa inadeguatezza di concezioni e progetti sta per molti
aspetti
la mancata attuazione di un completo ripensamento della propria storia
da parte
della componente ex comunista del Partito democratico, la quale ha
finito per
perpetuare l’antica renitenza ad una radicale revisione
ideologica - da
accompagnare all’elaborazione di un nuovo manifesto fondativo
- già evidente
nell’epoca di Enrico Berlinguer, malgrado la sostanziale
adesione del partito
alla democrazia repubblicana e gli orientamenti assunti
dall’allora segretario
del Pci. Una renitenza palesemente confermatasi allorché si
preferì attendere il
crollo del comunismo sovietico prima che il Partito mutasse il proprio
nome. Tutt’oggi
si può constatare una ritrosia a prendere le distanze in
modo circostanziato
dagli errori ripetuti fin troppo a lungo, sia in termini di adesione al
comunismo in sé, sia di scelte politiche di fondo, fra cui,
determinanti, non
solo l’opposizione alle Comunità europee anni
Cinquanta, ma anche al Sistema
monetario europeo, alla fine degli anni Settanta, che avrebbe
estromesso per lungo
tempo il partito dalla gestione della politica italiana.
Allo
stato dei fatti,
un pur comprensibile senso di fedeltà alla propria
militanza, la consapevolezza
dei sacrifici compiuti e del contributo nel complesso offerto alla
democrazia
italiana, la resistenza psicologica a dissolvere il proprio patrimonio
organizzativo
e di dotazioni, un qualche grado di settarismo hanno
contraddittoriamente
concorso ad impedire l’elaborazione di un rinnovato progetto
politico a
carattere generale, in grado, tra l’altro, di valorizzare
anche le tradizioni
del socialismo democratico e riformista italiano, eredi della prima e
della
seconda Internazionale, che non possono essere dimenticate o cancellate
dalla
memoria del movimento progressista italiano. Appare davvero
sconcertante,
infatti, che grandi figure emblematiche, a partire da Garibaldi stesso,
presidente del Congresso della pace, dei diritti dell’uomo e
della federazione
europea, riunitosi a Ginevra nel
Purtroppo,
ciò che oggi
emerge dal Pd è l’acrobatica conciliazione fra: a)
le reticenze ex comuniste, che
finiscono per creare il vuoto nel proprio passato, limitandosi al
massimo a
rivolgere seminascosti tributi di fedeltà a figure come
quella di Togliatti,
ovvero a inserire nel calderone dei propri riferimenti (vedasi un
recente
manifesto con cento santini) le personalità più
diverse, da De Gasperi a
Kennedy, a Gandhi, ma non, per dire, Spinelli o Colorni, ovvero ancora
ad
appropriarsi di mitologie mass-mediatiche di ascendenza
democratico-statunitense, che avrebbero da sempre fatto premio, almeno
fra i
giovani della generazione postbellica, sulla venerazione
dell’empireo
stalinistico-sovietico; b) la crescente marginalità di ex
democristiani di
sinistra e di cattolici impegnati, convinti di condividere con gli
antichi
avversari - in fondo sempre ammirati, ma di fatto ampiamente estranei
per
formazione, esperienze, memorie, organizzazione - il senso di dedizione
alla
causa democratica, repubblicana e social-popolare; c) il protagonismo
di chi
rimane attaccato alla difesa della tenace tradizione reticente e del
“patrimonio”
accumulato nel tempo, a sua volta insidiato da chi invece preferirebbe
una
piena conversione al modello di partito democratico e di alternanza di
fattezza
statunitense, senza troppo riflettere sul proprio passato e senza
troppo indagare
sulla natura, che verrebbe da motteggiare senza molta esagerazione come
demago-pluto-escortaico-mafionica,
non meno che clerico-affaristico-mediasettica, dei propri principali
antagonisti;
d) l’aspirazione, in sé positiva, ma che rischia
il giovanilismo, a rinnovare
dirigenti e parole d’ordine puntando sul semplice
rinnovamento anagrafico come
generatore di superamento delle antiche cristallizzazioni e di
più vasto consenso
da parte del grande pubblico, malgrado il generale invecchiamento della
popolazione e di riflesso dei cittadini votanti.
Ora,
a noi sembra che
la ricerca di un progetto generale e al tempo stesso
l’affermazione di un
radicamento storico della tradizione democratico-costituzionale nel
nostro paese,
che restano essenziali per emanciparsi dalla società
dell’effimero e
confrontarsi con le enormi urgenze del presente, vada effettuata in
primo luogo
attraverso la piena assimilazione tanto della proposta
politico-culturale di
Altiero Spinelli - la costruzione della federazione democratica europea
(e dell’Italia
europea in essa) - quanto della sua esperienza di militante, vissuta da
precursore all’interno della vicenda storica dei movimenti
popolari e
antifascisti.
Giovane
dirigente
comunista incarcerato dal regime già nel ‘27 e
mantenuto in reclusione fino al ‘43,
il futuro protagonista del primo parlamento europeo eletto a suffragio
universale nel 1979 avrebbe maturato in carcere una profonda revisione
dei
fondamenti del marxismo e del comunismo per giungere a proporre,
nell’ormai
celebre Manifesto di Ventotene,
scritto in sostanziale contrappunto con il Manifesto
del 1848, la sostituzione del principio della lotta di classe con
quello del
superamento della sovranità assoluta degli stati e
dell’instaurazione, con
metodo costituente, della democrazia federale europea. Tale soluzione
sarebbe
stata in grado, come effettivamente dimostrato
dall’esperienza storica, peraltro
ancora in corso, di garantire la pace permanente, la
libertà, lo sviluppo e il
benessere dei lavoratori in maniera incomparabilmente maggiore rispetto
al
cosiddetto socialismo reale, o regime comunista che si voglia definirlo.
Senza
entrare in mille
dettagli, la partecipazione di Spinelli alla Resistenza europea, la
fondazione,
nell’agosto del ‘43, del Movimento federalista
europeo assieme a personalità di
altissima levatura dell’antifascismo, la sua decisa scelta di
campo occidentale
(ma sempre contraria ad eventuali progetti egemonici statunitensi)
durante la
guerra fredda, la sua dedizione infaticabile alla causa della
federazione democratica
europea, nonché - fatto notevole per tutta Europa,
concordato con Enrico Berlinguer
su proposta di Giorgio Amendola - la sua elezione come indipendente
nelle liste
del Pci, tanto a Roma e che a Strasburgo (con l’obiettivo di
trasformare l’assemblea
europea in una costituente, ma al tempo stesso di mettere al servizio
della
causa dell’Europa federale la notoria, innegabile dedizione
dei comunisti
italiani), descrivono un arco politico ed esistenziale esemplare. Una
mirabile
e sicura traiettoria che conferma la sussistenza di un filo conduttore
virtuoso, sia pure con ritardi e consapevolezze diverse,
all’interno del
movimento operaio e democratico italiano, di cui non si può
e non si deve restare
dimentichi.
Non
solo, giacché l’impegno
per la creazione di istituzioni democratiche europee, con
l’Italia in posizione
trainante, ha costituito uno dei più importanti fattori di
dialogo e di condivisione
di obiettivi generali - si pensi alla collaborazione di Spinelli con De
Gasperi, con Nenni, con Berlinguer - fra elementi di primo piano delle
diverse
forze politiche eredi della Resistenza. Tanto che si può
affermare che il
Partito democratico costituisca oggi il punto di riferimento e di
incontro più
naturale per chi provenga da quella storia e da quel comune sentire del
futuro
del proprio popolo, di tutti i popoli europei e del mondo intero, in
vista del
progresso della umanità e della persona,
dell’uguaglianza e della pace, che
costituisce la comune sostanza valoriale dei movimenti popolari del
nostro paese
e non solo di esso.
Nessuna
società
politica democratica, del resto, può vivere sulla semplice
gestione dell’esistente,
o sull’appagamento di occasionali istanze
dell’elettorato, rinunciando a proporsi
una pur sobria missione di carattere generale, che costituisca un bene,
un fattore
di progresso, per l’intero consorzio umano. Per il Manifesto di Ventotene, scritto insieme a
Ad
onor del vero, va
anche osservato che nell’ultimo Spinelli, il quale aveva pur
difeso a spada tratta
la validità e l’affidabilità della
scelta europea del Pci, era subentrato nei
confronti di quest’ultimo un senso di delusione per
l’insufficienza dell’apporto
fornito all’iniziativa costituente lanciata dal nostro
“Ulisse” (questo il suo
significativo nome di battaglia, tra omerico e dantesco) e mirante
all’instaurazione
di una completa Unione europea, poi parzialmente istituita con il
trattato di
Maastricht. Colui che in sede europea viene ufficialmente annoverato
fra i
Padri dell’Europa lamentava che il Pci inclinasse semmai ad
un proprio cauto
inserimento nella “normalità” della
socialdemocrazia europea, piuttosto che ad
abbracciare decisamente la concezione federalista, ovvero quel pensiero
politico compiuto elaborato a Ventotene in alternativa al marxismo e
reputato
in grado di produrre effetti ben più concretamente
rivoluzionari di esso.
Sarà
stata pure un’ingenuità
dell’antico dirigente della Fgci formatosi alla scuola
leninista, ma a suo
avviso il Pci non riusciva a capire di dover finalmente dedicare le sue
energie
alla nuova causa, profeticamente individuata da un comunista come lui
già negli
anni più duri del fascismo e reputata tale da dover divenire
obiettivo politico
primario di un movimento politico pienamente democratico: un movimento
desideroso,
beninteso, non già di adattarsi al
“gioco” dell’alternanza in un contesto
nazionale statico, bensì di dar vita al salto di
civiltà, all’innovazione
qualitativamente decisiva cui si è accennato poco
più sopra. Il Pci continuava
invece a oscillare ossessivamente fra passato e presente, fra Est e
Ovest, fra
realtà concreta e mitologie, fra sentirsi dentro e sentirsi
fuori, abdicando al
dovere di darsi una visione generale e un progetto politico di adeguato
respiro.
Personalmente
restiamo
convinti che la “provocazione” di Spinelli, pur
venata di un certo solipsismo
proprio dei precursori, resti oggi più attuale che mai,
soprattutto tenendo
conto che nell’attuale fase di implosione-decostruzione del
sistema politico
della cosiddetta seconda Repubblica il Partito democratico, insieme
alle forze
politiche legate all’eredità costituzionale,
è chiamato precisamente a proporsi
un disegno politico di grande portata e non soltanto a prospettare una
normale
alternanza, in vista della soluzione di singoli problemi affrontabili
nello
spazio di una legislatura.
Un
patto con gli europei
Ebbene,
tale disegno
politico complessivo si incentra proprio sul compimento del progetto di
unificazione federale dell’Europa da parte dei paesi e delle
forze politiche
disposti a dar rappresentanza e istituzioni al popolo costituzionale
europeo. E
questo non già o non soltanto per la suggestione
dell’obiettivo in sé,
oggettivamente virtuoso e affascinante, bensì anche per la
consapevolezza,
tutta spinelliana, ma radicata già nel Risorgimento,
dell’identificazione fra
interesse nazionale italiano ed edificazione della democrazia federale
europea,
nonché della vocazione italiana ad esercitare un ruolo di
mediazione e di
impulso in tale direzione.
Anche
le recenti
vicende della crisi finanziaria internazionale dimostrano quanto abbia
giovato
alla solidità economica del nostro paese la sussistenza di
un quadro
istituzionale europeo, mentre la pressione della globalizzazione sui
sistemi
produttivi lascia temere un inasprimento delle condizioni dei
lavoratori, ove
non sussista un’adeguata area di statualità in
grado di tutelare i settori più minacciati
della società, assicurando al tempo stesso alle imprese
l’efficienza
complessiva dell’ambiente in cui effettuano gli investimenti,
al fine di controbilanciare
i vantaggi delle delocalizzazioni e fronteggiare la concorrenza
internazionale.
Non meno importante è promuovere tale area di
statualità per evitare, come già succede
nel nostro paese, che le vere o presunte esigenze della competizione
internazionale impongano un’egemonia dei venditori-produttori
sui
consumatori-lavoratori tale da protrarre eccessivamente la giornata
lavorativa
o penalizzare la natalità e le famiglie, abbassando i salari
dei giovani e la
protezione sociale, nonché addirittura minacciando di
licenziamento le donne in
maternità.
Ora,
che questi
obiettivi siano perseguibili in un quadro puramente nazionale
è illusione
denunciata da tempo ed evidente ai più, al di là
della constatazione che i
maggiori paesi europei sono riusciti a tutelarsi parzialmente dagli
effetti
socialmente devastanti della globalizzazione. Costoro riescono a
difendersi
meglio degli altri grazie alla loro condizione di forza relativa ed
anche alla
sussistenza di un mercato unico europeo considerato spesso come
“giardino di
casa”, ma non certo perché possano permettersi di
aspirare ad un ritorno alla
sovranità assoluta, come dimostrano anche le recenti
concessioni in vista della
creazione di un sistema europeo di gestione-controllo della finanza e
dell’economia,
a dispetto di iniziali affermazioni contrarie, pronunciate
all’insegna del
virtuosismo nazionale.
Altrettanto
evidente
risulta dunque il fatto che il nostro paese, certo non privo di
elementi di
debolezza strutturale, potrà garantirsi da nuove e forse
più imponenti crisi
economico-finanziarie, oltre che da attacchi allo stato sociale, solo
se l’Unione
europea - o almeno il suo nucleo più coerente, di cui
l’Italia deve essere
assolutamente partecipe - sarà in grado di proseguire verso
una reale unione
economica, da affiancare a quella monetaria, che sia dotata degli
strumenti politico-istituzionali
non soltanto di difesa dell’esistente, ma anche di rilancio
degli investimenti,
della ricerca e delle innovazioni tecnologiche. Una Unione, in altre
parole,
abilitata ad esercitare un ruolo attivo nei settori strategici, se non
a
proporre un modello di società della conoscenza, della
produzione diffusa,
della tutela della persona, da imitare nel contesto internazionale.
Per
ottenere questo,
tuttavia, vale a dire perché sia possibile stringere un
patto di natura
federale fra i contraenti, è assolutamente indispensabile
che sussista non
soltanto la determinazione di forze politiche consapevoli e
all’altezza del
compito, ma anche un rapporto di fiducia fra i detti contraenti, un foedus fondato sul rispetto rigoroso
della
legalità, delle regole stabilite e delle procedure
concordate, oltre che sulla
condivisione delle concezioni della democrazia. Altrettanto evidente
risulta a
tale riguardo che l’Italia berlusconiana, rivelatasi ogni
giorno di più nella
sua natura tanto affaristico-illegale quanto inquinata da
insopportabili
conflitti di interesse e da insidie al potere costituzionale della
magistratura,
se non alla Costituzione in sé, non risponde alle esigenze
elementari in base
alle quali i potenziali, indispensabili partner
del processo federale siano disponibili a cedere ulteriori poteri
sovrani ad
istituzioni comuni. Anzi, ne costituisce un oggettivo, rilevantissimo
impedimento.
Il
che, pur tenendo conto
degli immancabili egoismi particolaristici di ogni società
nazionale, risulta
comprensibile e giustificato: l’eventuale sensazione di un
peggioramento delle
condizioni di legalità del sistema democratico, a questo
punto divenuto
largamente federale, e pertanto meno controllabile da un singolo paese,
indurrebbe una crescente disaffezione dei cittadini nei confronti delle
istituzioni dell’Unione e della democrazia in quanto tale,
con effetti che la
nostra quotidiana esperienza percepisce ormai, nel nostro ambito, come
inaccettabili e devastanti.
L’Europa,
quindi, non
può più valere per il nostro paese come puro
condizionamento esterno, in grado
di indurre comportamenti virtuosi all’interno. Al contrario
deve trasformarsi
nell’impegno attivo e propositivo, in forza del quale il
quadro nazionale viene
parallelamente e consapevolmente trasformato in fattore esemplarmente
trainante
della comune costruzione, oggi sempre più necessaria per
poter agire come
interlocutori del resto del mondo.
Si
può peraltro riconoscere
che l’attuale gestione della finanza pubblica italiana, con
il presumibile concorso
della Lega, abbia evitato la degenerazione dei conti del paese che si
era
profilata invece nei precedenti governi della destra, quando
l’euro e l’Europa
stessa venivano denigrati e additati come la causa dei mali
socio-economici.
Tuttavia l’esercizio del rigore, stante
l’impossibilità, in regime di euro
(ovvero di condizionamento esterno), di interventi a carattere
inflazionistico
ai fini di riequilibrio delle partite di bilancio in funzione
dell’occupazione
o degli investimenti, è stato sostanzialmente eseguito
mediante tagli alla
spesa spesso e volentieri a carico dei settori maggiormente trainanti e
produttivi,
piuttosto che con una dolorosa azione di trasferimento di risorse da
settori
parassitari a produttivi. Né di certo è stato
perseguito un implacabile, ma al
tempo stesso accorto, contenimento dell’evasione fiscale, o
si è proceduto alla
liberalizzazione (non dimentichiamo certo in proposito il cosiddetto
“pacchetto
Bersani”) di ambiti protetti da legislazioni corporative.
Un’azione questa che
è stata compiuta invece da altri paesi - in
primis nel campo fondamentale del rifinanziamento
dell’istruzione e della
ricerca, malgrado la crisi - e che risulterebbe oltretutto meno onerosa
se svolta
in un contesto di rilancio degli investimenti a livello
dell’Unione.
Si
impone in sostanza,
da parte del nostro paese, l’urgenza di un “patto
con gli europei”, grazie al
quale il progresso dell’integrazione verrebbe scambiato con:
a) un coraggioso
riassetto della finanza pubblica, unito al rilancio della
produttività e degli
investimenti; b) un impegno ferreo a emendare la penisola dalle note
deficienze
organizzative e dagli aspetti inaccettabili di illegalità e
criminalità - ivi
compresa la presenza di pregiudicati e indagati, talvolta addirittura
per mafia,
nel parlamento, o nel governo - che ancora impediscono alla
società italiana di
essere accolta a pieno titolo nell’avanguardia del mondo
occidentale e di
trarne i vantaggi conseguenti, per sé e per gli altri paesi
dell’Unione.
A
fronte dell’attuale
continuo, autolesionistico e introflesso battibecco personalistico tra
le forze
politiche nazionali, tale impegno di riscatto nazionale, di natura
risorgimentale e neoresistenziale, compiuto nella coincidenza dei 150
anni dell’unità
d’Italia e offerto all’intera Europa, appare
l’unico in grado di conferire al
soggetto politico che intenda proporlo e perseguirlo
l’autorevolezza e la
giustificazione per agire con determinazione assoluta sulle attuali
manchevolezze del paese, in vista del compimento della costruzione
della
democrazia italiana nel momento stesso in cui essa si rende
protagonista dell’indispensabile
raggiungimento dell’unità politica europea.
L’esperienza dimostra del resto
come gli italiani, a suo tempo chiamati a corrispondere la cosiddetta
tassa per
l’Europa pur di aderire alla moneta unica, siano disponibili
ai sacrifici e al
disinteresse, ove collocati in una prospettiva generosa e sanamente
patriottica.
Ma
tutto ciò è solo un
lato della medaglia. L’altro aspetto, più
lusinghiero e incoraggiante, è che i
dirigenti del nostro paese, nei decenni del dopoguerra, hanno saputo
svolgere
un accorto lavoro di promozione della costruzione europea e di
mediazione fra
gli interlocutori maggiori, rivelatosi in numerose occasioni come
indispensabile e decisivo. Si pensi per esempio, al di là
del ricordato contributo
di Spinelli, alla lontana conferenza di Messina del 1955, o alla
determinazione
con cui i governi sottoscrissero i trattati comunitari malgrado le
opposizioni
degli ambienti economico-industriali, o al Consiglio Europeo di Milano
del giugno
1985, o alle vicende del trattato di Unione politica e di Unione
economico-monetaria (trattato di Maastricht) e si avrà la
conferma di tale preziosissimo
apporto, volentieri riconosciuto anche in sede europea.
Per
ottenere tali
risultati, tuttavia, era indispensabile una profonda conoscenza dei
principi,
dei meccanismi e delle logiche della costruzione europea, laddove oggi
sussiste
una profonda indifferenza verso tali aspetti, come si può
constatare dall’assenza
di riferimenti alla Ue (con cui pure condividiamo una moneta e un
mercato unico
e tanto altro ancora) negli interventi programmatici, anche
recentissimi, di
tanti leader politici; dai
marchiani
errori comparsi sulla più accreditata stampa nazionale in
tema di Unione
europea, ripetutamente confusa con il Consiglio d’Europa; o
dall’assenza di un
dibattito realistico su tematiche capitali come gli effetti
dell’allargamento
dell’Ue. Soltanto a titolo di esempio, si dibatte
all’infinito, seppur
confusamente, sul federalismo interno, con relative minacce di
separatismo,
ignorando che nel frattempo la moltiplicazione di stati presunti
sovrani -
argomento fin troppo spinelliano - nei Balcani o altrove finisce per
deformare
sempre di più gli assetti istituzionali
dell’Unione, creando uno squilibrio
insidiosissimo fra Europa reale ed Europa formale.
Se
non fosse stato per
l’allarme lanciato dalla corte costituzionale tedesca (e
ignorato in Italia) in
occasione della ratifica del trattato di Lisbona, chi si sarebbe
accorto che il
peso specifico del voto di un cittadino italiano o tedesco per il
Parlamento
europeo vale incredibilmente meno di quello di recenti adepti
all’Ue, peraltro prossimi
ad essere raggiunti, con ulteriore inaccettabile deformazione, da un
vero
polverio di altre nazionalità? E non è questa una
necessaria, indispensabile
riflessione a tutela dei legittimi interessi nazionali, oltre che
dell’irrinunciabile
principio democratico “one man, one vote”? O si
preferisce continuare con il
principio “tanti stati, tanti posti di comando”, al
punto che quasi quasi
converrebbe a tutti che la Padania, o il Mezzogiorno, o tutte le
regioni del
Belpaese diventassero indipendenti? Per lo meno, i posti riservati agli
italiani si moltiplicherebbero, insieme al diritto di veto su questioni
fondamentali dell’Unione, tuttora concesso dal trattato di
Lisbona ai singoli
stati e staterelli.
Insomma,
a volersene
rendere conto, e a parlarne nei programmi politici, forse
l’occasione per un
serio dibattito sulla centralità della questione Europa e
per vigorose
iniziative politiche al riguardo ci starebbe sicuramente, magari anche
chiedendo notizie sul funzionamento della nuovissima struttura della
politica
estera europea e del ruolo italiano in essa, che risulta evidentemente
meno
avvincente (provincialismo?, sì, come minimo) rispetto a
qualunque minuzia
della cronaca politica interna .
In
breve, i temi così
prospettati e le esigenze generali della società italiana,
componente del
nucleo fondante dell’Unione europea, richiedono
l’emergere di una forza
politica determinata a non fare del consenso di breve periodo il primo
dei
propri obiettivi, in vista dell’occupazione del potere e del
sottopotere, bensì
a proporsi come fautrice di trasformazioni di lungo periodo e di
illuminata
emancipazione sociale e culturale, come è proprio
dell’identità migliore e più
profonda di tutti i movimenti popolari di ispirazione democratica.
Non
c’è dubbio che le
violenze epocali della storia novecentesca, teatro delle ambizioni
aggressive
delle statualità nazionali, abbiano indotto anche nel
movimento operaio
reazioni eccessive e totalitarie, inasprendo gli animi delle masse e
suggerendo
soluzioni implacabili come risposta inevitabile alle
conflittualità perseguite
da governi che non esitavano a sacrificare milioni di vite umane per i
propri
disegni egemonici. Oggi è tuttavia venuto il momento di
guardare con serenità
ed anche spirito di autocritica a quanto accaduto, valorizzando al
tempo stesso
il patrimonio di sacrifici, valori, elaborazioni intellettuali, spirito
di pace
e tensioni di emancipazione espressi dai movimenti democratici,
proponendo ai
giovani e a tutta l’opinione pubblica
l’indispensabilità di una visione di
progresso universale che per tanti aspetti passa più che mai
per le prospettive
indicate dal precursore Spinelli, uno Spinelli per parte sua sempre
disponibile
alla collaborazione con l’antifascismo laico e i cattolici
“adulti”, cui tanto
si deve nella vicenda democratica del nostro paese.
Tale
progetto deve
essere perseguito in maniera realistica e concreta, affermando, in
primo luogo,
la centralità della cultura, della scienza e della
legalità all’interno di ogni
reale azione di progresso, ma anche, aspetto non meno importante,
valorizzando le
pubbliche istituzioni (locali, nazionali e sovranazionali!), quali sedi
di tutela
dei diritti di cittadinanza (istruzione diffusa, lavoro, assistenza,
previdenza), nonché di intervento per investimenti di
interesse collettivo. Lo stato
democratico, ai suoi diversi livelli, non va inteso infatti come
apparato
sovrastante la società, bensì come luogo di
espressione della libertà e dello
spirito di comunità. Tutti questi elementi costituiscono un
requisito essenziale
per assicurare gli effetti positivi stessi dell’economia di
mercato e dell’iniziativa
economica privata - ormai estesa all’intera dimensione
mondiale - senza per
questo subordinare l’uomo e la società alla
ricerca del profitto come unico
valore, al dominio straripante di gruppi monopolistici ed
entità sovrane, alle discrezionalità
incondizionate dei detentori del capitale.
Un
programma per l’Italia europea
Su
queste basi potrà pertanto
essere elaborato un programma politico, impostato a nostro avviso sui
seguenti
punti prioritari.
Sul
piano istituzionale
europeo, è indispensabile promuovere, coinvolgendo
università, studiosi,
opinionisti, un’approfondita ricognizione
sull’attuale assetto successivo a
Lisbona, al fine di giungere ad una chiara definizione, in primo luogo
sul
piano dei principi giuridici, della natura di tale assetto, commisto
com’è di
elementi intergovernativi, funzionalisti e federalisti, e se esso possa
essere
accettabile nel lungo periodo, o necessiti sollecite riforme, in grado
di
assicurare una salda legittimità a esecutivo, legislativo e
giudiziario in
primo luogo. Che credibilità avrà, a titolo di
esempio, una Corte di Giustizia
formata da un giudice per ogni paese membro, al punto che fra breve la
comparabilmente modesta realtà dell’Europa ex
comunista vanterà una maggioranza
di magistrati al suo interno? Approfondimenti da noi promossi hanno
sottolineato la non sostenibilità della situazione. E non si
corre il rischio,
ancora, che il Consiglio rivendichi una maggiore legittimità
democratica
rispetto al Parlamento europeo, visto che il primo tutela il rapporto
rappresentanza-popolazione meglio del secondo, pur escludendo dal
proprio seno
le opposizioni? Di sicuro il suo attuale presidente lo definisce
già come il
reale governo economico dell’Ue. In breve, continuare a
compiacersi della pur
arguta battuta per cui l’Ue sarebbe un ermafrodito, e come
tale bisogna
tenerselo, non convince più nemmeno gli autori di quel motto
di spirito.
Si
conferma insomma l’urgenza
di una riflessione politica e giuridica adeguata, da compiere con il
concorso
di tutte le forze politiche e intellettuali dell’Ue, nel
contesto di uno spazio
pubblico europeo, che è finalmente ora di costruire con
adeguati strumenti di
dibattito, comunicazione e pubblicizzazione, grazie anche al ricorso
alle nuove
tecnologie.
Sul
piano economico,
solo una grande serietà e determinazione dei componenti
l’Unione può
consentire, in primo luogo, l’accreditamento della proposta
avanzata dalla
Commissione europea, e respinta dagli stati maggiori, in vista
dell’aumento
delle risorse proprie dell’Ue mediante
l’introduzione di prelievi fiscali
europei. Inoltre, un piano europeo
di
investimenti per rilanciare l’economia e favorire la
transizione verso un
modello di sviluppo sostenibile può essere finanziato con
l’emissione di Union bonds,
come è stato più volte
proposto in passato ed è stato di recente sostenuto anche
dal Presidente Barroso
nel suo Rapporto sullo stato dell’Unione. D’altra
parte, anche la recente
decisione di Ecofin di istituire una sessione di bilancio condensata
nel
semestre europeo, pur utile nella prospettiva di un miglior
coordinamento delle
politiche fiscali degli stati membri, non è certamente in
grado di superare i
limiti del metodo di coordinamento, già più volte
verificati in passato. In
effetti, in assenza di un potere europeo, ogni stato avrà
comunque convenienza
a comportarsi da free rider e il
coordinamento sarà effettivo soltanto nella misura, del
tutto ipotetica, in cui
vi sarà convergenza delle ragion di stato - ovvero degli
interessi - dei
diversi paesi.
In
generale, va
rilevato che il deficit democratico dell’Europa ha pesanti
riflessi sulla
concreta possibilità di attuare in tempi ragionevoli una
politica fiscale comune,
mirante a fronteggiare situazioni caratterizzate da esigenze di
immediatezza ed
emergenza, tra cui il sostegno a competitività e sviluppo e
il contrasto delle
crisi economico-finanziarie. Specie dopo l’ultimo
allargamento a 27 stati, è
anacronistico che permanga la regola
dell’unanimità in materia fiscale. Dieci
anni or sono, paventandone le conseguenze, la Commissione propose
l’introduzione
del voto a maggioranza qualificata almeno per le materie concernenti la
previdenza ed il fisco che avessero un impatto evidente sulla
realizzazione del
mercato unico, ma la proposta non è stata accolta
né risulta che sia di nuovo
all’esame.
Per
questo motivo, le
direttive europee in materia fiscale hanno tempi di gestazione che ne
attenuano
notevolmente l’efficacia. Basti pensare, soltanto per fare
alcuni esempi, alla
direttiva sulla tassazione dei redditi del risparmio (diretta ad
armonizzarne
il sistema di tassazione e a contrastare la consistente evasione
transnazionale), che fu inserita nel cosiddetto “Pacchetto
Monti” del 1996:
varata soltanto nel 2003, contiene una serie di modifiche che ne hanno
indebolito
la portata, causa il compromesso imposto da una esigua minoranza di
stati
membri che l’avevano osteggiata, vedendo minacciati i propri
interessi
nazionali. Eppure Monti stesso, in anni ormai lontani, aveva messo in
guardia
contro gli effetti socialmente insidiosi della concorrenza fra gli
stati, dediti
ad attrarre capitali offrendo condizioni fiscalmente competitive: la
retribuzione
del lavoro, specialmente di quello meno qualificato, avrebbe raggiunto
livelli
inaccettabili. E si pensi anche alla proposta avanzata dalla
Commissione per
introdurre una Common Consolidated
Corporate Tax Base (la cosiddetta CCCTB, diretta a creare un
regime
semplice ed uniforme di tassazione delle imprese che operano in ambito
europeo), che risale al 2001 ed è tuttora in fase
istruttoria nel tentativo di
individuare una soluzione gradita alla totalità dei governi
nazionali.
Nell’attesa
della piena
realizzazione dell’Europa federale, che risolverebbe in radice anche questo ordine di
problemi, l’Italia dovrebbe farsi
promotrice di una modifica dell’attuale sistema di voto delle
norme (siano esse
direttive o regolamenti) a contenuto fiscale, sostenendo
l’esigenza di
introdurre meccanismi basati sulla regola della maggioranza,
qualificata dal
riferimento al numero dei cittadini di ciascuno stato membro, che si
avvicinino
quanto più possibile al principio “one
man – one vote”, assicurando almeno
tendenzialmente il rispetto del
fondamentale principio del consenso al tributo (“no
taxation without representation”), pilastro di ogni
democrazia
degna di questo nome.
Altrettanto
indispensabile risulta procedere ad una rivalutazione della proposta
monnettiana dell’Euratom per la gestione di una comune
politica energetica, ovvero
delle iniziative assunte da Spinelli, commissario europeo tra il
‘70 e il ‘75,
in tema di tecnologie e ricerca, di promozione di
un’industria aeronautica
europea, di creazione di una politica comune dell’ambiente e
di una
legislazione comune in materia di: imprese (modello unico di impresa
europea, euro-corporation),
sicurezza sul lavoro,
standard di fabbricazione comuni). Nel complesso, è stato
osservato che circa
un 60% delle proposte di Spinelli è già stato
adottato in sede Ue, confermando
la preveggenza e la visione del leader
federalista, che già da lungo tempo sarebbe stato opportuno
aver fatto proprie.
Appare
dunque chiaro, a
nostro avviso, che è necessario avanzare al più
presto verso una forma federale
di elaborazione e gestione delle più importanti politiche
dell’Ue, fosse pure a
costo di creare un nucleo ristretto di paesi disposti a bruciare le
tappe,
partendo dalla realtà dell’Eurogruppo.
In
questo ambito, un’azione
svolta dall’Italia, anche per dare all’Europa una
voce maggiore in campo
internazionale, andrebbe intensificata con sensibilità,
costanza di
orientamenti e dialogo permanente con i membri dell’Unione,
assicurando un
ruolo di mediazione e di impulso.
Tra
i grandi obiettivi
che in questo contesto una forza politica, purché dotata di
un patrimonio di
idee e una carica ideale, è chiamata a perseguire ci sono in
egual misura: la
soluzione della questione palestinese grazie alla garanzia
dell’Ue; l’organizzazione
di uno spazio euromediterraneo in cui inserire, agendo a livello Ue,
Consiglio
d’Europa, Nato, Onu, anche i rapporti con la Russia e la
Turchia; la
costruzione di una politica estera e di sicurezza della Ue,
comprendendo in
essa anche il tema dell’esercito europeo; la presenza della
Ue in quanto tale
all’interno delle organizzazioni internazionali; la lotta
alla fame nel mondo e
il decollo delle aree sottosviluppate; la tutela degli equilibri
ecologici; l’esplorazione
dello spazio.
Quanto
alle riforme
interne al nostro paese e al metodo con cui attuarle, esse andranno
accompagnate
da un preventivo, sistematico confronto con quanto disposto nei paesi
più
rilevanti dell’Unione, ai quali ci uniscono, come si
è detto, la moneta, il
mercato unico, le normative comunitarie, il comune assetto
istituzionale, etc.
Prescindere da questo ambito significa mancare dei riferimenti
indispensabili
per un’efficace azione legislativa, quand’anche
fosse caratterizzata da
dissenso, a questo punto consapevole, ma pur sempre sottoposto alle
comuni
normative, rispetto ai partner.
In
generale, detto un
po’ scherzosamente, sussiste la fondata impressione -
corroborata da dati
recenti di natura economica, nonché da pur contestati
ammonimenti della Banca d’Italia
- che gli europei, volendo evitare di diventare troppo tedeschi,
debbano
comunque rassegnarsi a diventare più tedeschi di quanto
siano ora. Vale a dire,
superato lo sconcerto, che appare indispensabile procedere ad una
attenta
valutazione dei criteri che hanno consentito al più grande
paese europeo, grande
sia in termini demografici che economici, di affrontare con maggior
successo
degli altri le difficoltà degli ultimi anni, tanto sul piano
produttivo che su
quello sociale. L’obiettivo dovrà essere di
recepire seppur criticamente tali
criteri, ispirati all’economia sociale di mercato, tanto in
sede Ue che
nazionale. Al tempo stesso varrà la pena di restare in
guardia dalle tentazioni
del “beggar-thy-neighbour”, da taluni rilevate in
campo industriale e sindacale
in riferimento a certo solipsismo politico-culturale della Repubblica
Federale
nei confronti del resto dell’Europa. Un compito, in altre
parole, che richiede
un’estrema capacità di riflessione, mediazione ed
intervento.
In
tale contesto,
appare inoltre raccomandabile valutare con i partner
il grado di equilibrio ottimale fra intervento pubblico a
vario titolo, sia all’interno degli stati, sia
dell’Unione, e intrapresa
privata. Non è detto che la pura liberalizzazione, peraltro
spesso non attuata
dagli altri stati membri sul piano interno, sia l’unico
strumento di
dinamicizzazione della società e dell’economia,
oltre che di tutela dell’occupazione
e del lavoro. Molto si può attendere da programmi di
investimento promossi
dalla Ue stessa nei settori strategici, sia pure in un contesto di
concorrenza
fra imprese, ovvero da una vera e propria politica industriale, sempre
auspicata ma mai istituita.
Al
tempo stesso la
dovuta attenzione deve essere riservata anche ad un altro aspetto
costitutivo
della costruzione comunitaria: quello della garanzia di un sviluppo
equilibrato
dell’insieme dell’Unione, evitando situazioni
monopolistiche ed anche eccessive
concentrazioni produttive in singole aree. A titolo di esempio e come
spunto di
utile riflessione tutto da discutere, sia sul piano industriale che
sindacale:
mentre Francia e Germania hanno di fatto mantenuto in vita le proprie
imprese
automobilistiche, il nostro paese ha dovuto se non rinunciarci, almeno
fonderle
con un grande gruppo statunitense (evoluzione, quest’ultima,
che conferma i
legami della società italiana con quella statunitense, ma
meritevole di
notevoli approfondimenti sia sul piano interno dell’Ue, sia
in merito al
rapporto Usa-Ue). Ebbene, è possibile immaginare uno
sviluppo che non cancelli
le specificità nazionali, o di singole aree, mantenendo in
accettabile equilibrio
ragioni della concorrenza e aspirazioni alla continuità di
potenzialità
produttive?
Un
aspetto connesso, da
non sottovalutare, è che i nostri maggiori interlocutori
europei, quando
decidono, come hanno fatto, di aumentare la spesa per istruzione e
ricerca in
un momento di crisi, si attendono di uscire con un quid
di vantaggio rispetto agli altri nel momento della ripresa:
ciò significa, realisticamente, che attorno a questi temi si
giocano notevoli
interessi nazionali, non abbastanza considerati nella loro rilevanza, e
che
andrebbero affrontati soprattutto con un maggior grado di integrazione,
ma
anche di responsabilizzazione interna. Appare evidente, fra
l’altro, che
privarsi di centri di ricerca e di imprese di primaria importanza
depaupera le
singole società di saperi, di opportunità per i
giovani e persino di
motivazioni a dotarsi di un adeguato livello di istruzione
professionale ed
universitaria.
Fra
gli obiettivi del
Partito democratico dovrebbe figurare inoltre un grande sforzo
nazionale per la
riduzione del debito pubblico (che di per sé riduce di
alcuni punti percentuali
le potenzialità di ripresa), da attuarsi soprattutto
mediante una puntuale,
metodica razionalizzazione, efficientizzazione e moralizzazione della
macchina
tanto statale che produttiva, nonché dei servizi in
generale, motivando e
responsabilizzando l’intero corpo sociale, piuttosto che con
semplice dirigismo
contabile, spesso incline a complicare procedure di spesa e apparati di
controllo.
Passando
oltre, in tema
di “patto con gli europei”, per un verso va
sollecitata una normativa europea,
ancor oggi insussistente, al fine del perseguimento della
criminalità
organizzata, avvalendosi delle esperienze acquisite dalla magistratura
e dalla
legislazione italiana nella lotta contro la mafia; per un altro verso,
l’Italia
dovrebbe almeno recepire, cosa che non ha ancora fatto, le normative
europee per
la confisca all’estero dei beni esportati dalle
organizzazioni criminali, come
ha recentemente denunciato
Altre
tematiche, dalla
sanità alla previdenza sociale, al sistema pensionistico,
alla formazione scolastica
e professionale vanno affrontate con una chiara visione europea.
Caro
Segretario,
nel
concludere questo
nostro appello, sottolineiamo che l’attuale carenza di
iniziative di respiro
europeo da parte dei leader dei
maggiori paesi dell’Ue esige un sovrappiù di
impegno da parte del nostro e dal
Pd in particolare, il quale, sia pure sul piano simbolico, che non
è mai
trascurabile, farebbe bene a inserire nelle proprie insegne, al momento
piattamente nazionali, almeno un accenno grafico ai colori
dell’Unione europea.
Quanto
ad Altiero
Spinelli, recenti sviluppi all’interno del Parlamento europeo
registrano lo
sviluppo di aggregazioni e proposte politiche direttamente ispirate al
suo
messaggio e al suo esempio. Sarebbe a dir poco auspicabile che il Pd,
invece di
restare scavalcato, raccogliesse con grande risalto
l’eredità dell’antico confinato
antifascista di Ventotene: diventerebbe in questo modo il primo grande
partito
italiano, e presumibilmente dell’Unione, a fare
dell’obiettivo della
federazione democratica europea il suo fattore fondativo. Un obiettivo
profondamente
innovatore ed epocale al tempo stesso, per il suo radicamento di lungo
periodo
nella storia dei movimenti popolari e per la prospettiva offerta di un
miglioramento decisivo della civiltà umana.
Restiamo
al tempo
stesso profondamente convinti che il progetto dell’Italia
europea,
profondamente responsabilizzante, contribuirà in modo
decisivo a fronteggiare i
pericoli di separatismo e di frantumazione del tessuto connettivo
interno del
paese provocati dagli egoistici, torbidi e ciecamente introflessi
conflitti di
interessi particolaristici e di potere personale che hanno
caratterizzato
questi anni da dimenticare.
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